Lo stava fissando da cinque minuti ormai. Senza dire una parola, ne scrutava i contorni, in cerca di qualcosa che non lo convincesse. Non la casa, quella sembrava ok. Ma lui, lui proprio. C’era puzza di imbroglio, la sentiva a un miglio di distanza. Pareti appena imbiancate, pavimento rifatto, tubature e impianti certificati, infissi antisfondamento. Tutto pulito, tutto nuovo. Troppo.

Il vecchio proprietario sudava freddo, i capelli gli si erano rizzati in testa, e i denti gialli uscivano fuori dalle labbra, sformate dal terrore.

– È DAVVERO tutto qui, signor Ricciardi? – disse Lui con finta calma. Aveva i capelli lunghi tirati all’indietro, fisico possente da negoziatore, spalle allenate da mille trattative e due occhi glaciali, che facevano tremare i muri in cerca delle crepe.

– S…sì… Tutto qui… Le ripeto, è davvero un ottimo affare. Io me ne libero solo perché ormai… sono vecchio… sa com’è…

– Eppure, – gli rispose – da queste parti, i prezzi in media sono 50 mila più alti. Si è convertito alla filantropia, signor Ricciardi? – e sorrise di un sorriso macabro.

– Mi interessa solo chiudere al più presto.

– Bene. E chiuderemo, questo glielo assicuro.

Deglutì.

– Mi parli della terza mattonella in fondo a destra, nel ripostiglio. E’ leggermente più sollevata delle altre. Ci sono state infiltrazioni dai vicini? E i bulloni del Wc, angolo finestra, sono lucidi da un lato, come se fossero stati svitati più di due volte negli ultimi cinque anni. C’è qualcosa della fecale che dovrei sapere, signor Licciardi?

Mentre Licciardi prendeva fiato per abbozzare una risposta, si sentì un rumore di chiavi oltre la porta, nelle scale. Era la dirimpettaia. Lui balzò in piedi dal divanetto e corse alla porta. Licciardi provò a fermarlo, ma non gli riuscì di correre avanti più veloce.  

Aprì di scatto la porta.

– Buongiorno, Signora – disse Lui, galante, a quella donna dall’aspetto simpatico. Era una signora grossa, affannata per le rampe appena fatte, e si girò con un sorriso bellissimo, posando in terra due buste della spesa piene zeppe di un solo ingrediente: cipolle.

– Uhhh! Buongiorno Signor Licciardi! Tenete ospiti, eh? Come state? Avete visto che tempo! Maronna mia, io ho steso i panni stamattina e non si vogliono proprio asciugare. Mi ha raccontato l’altro giorno mia cugina Marisa che da quando sta a Milano non è riuscita a togliere la puzza di umidità dai vestiti di suo figlio Gino, ve l’ho detto che quel poverino è stato male? Si è preso la scarlattina? No, le buste le porto da me, giovanotto, grazie. Com’è gentile il vostro amico. Io mò mò sto tornando dal fruttivendolo, sono scesa per prendere due cipolle perché devo fare una bella genovese come Dio comanda per domenica, che vengono tutti i parenti a pranzo, poi sentiterete che profumo: ci con-so-lia-mo. Arrivederci, Arrivederci, salutatemi vostra moglie, quella cara donna, la vedo poco, ma sta bene…? Tante care cose…

Entrò in casa senza smettere di parlare. La sua voce si fece sempre più lontana, ma non smetteva.

Lui lo guardò. Licciardi mostrò un sorrisetto teso. Lentamente fece qualche passo verso la porta dei vicini, diede un’occhiata al cartellino sul campanello. BRAMBILLA, diceva il foglietto bianco, stampato largo, sotto il pulsante. Notò che i bordi erano leggermente spiegazzati, come se qualcuno l’avesse ritagliato un po’ più grande del dovuto, e avesse provato a incastrarlo nello spazio che c’era. E poi sembrava nuovo, quel foglietto. Appena stampato. Lo tirò via, con un gesto rapido. Licciardi tremò come se gli avessero morso una coscia. BRAMBILLA GENNARO – ESPOSITO CONCETTA, diceva la targhetta sotto. Quella vera.

Si girò di nuovo verso il proprietario dell’appartamento, che minimizzò, imbarazzato. A un tratto si sentì un rumore, leggerissimo. Anzi: non si sentì nessun rumore, ma lui lo percepì comunque.

Dum

Dum. Dum.

Era come un dito, che batteva piano su una superficie morbida. Morbida ma tesa, reattiva; un suono cupo, con un lieve cigolìo, come di due piattini metallici che si sfregano in contatto.

Gli venne un sospetto. Salì le due rampe che lo portarono al piano di sopra, seguito con affanno da Licciardi, che provava ad afferrargli il braccio, per farlo rientrare in casa.

Dum. Dum.

Appoggiò l’orecchio alla porta di destra, poi a quella di sinistra.

Dum.

Il rumore era sempre più vicino, ma non veniva da nessuna di quelle due porte. Salì l’ultimo ammezzato. Il suono si fece chiaro.

Dum. Du-dum.

Bussò alla porta. Era una bella ragazza, vestita di una gonna nera, lunga e ampia, con un foulard arrotolato in testa. Aprì con uno sguardo gentile.

– Buongiorno! Vi aspettavo. E’ pronta, come nuova.

Dentro era un ambiente rustico, quasi etnico. Tutto di legno, con foto di un mare splendido, gente allegra, spiagge meravigliose. Un odore di segatura penetrante e quello intenso della pelle. Capra, per la precisione. Tutto intorno, appese alla parete, una dozzina di TAMMORRE.

La signora ritornò con un pacchetto tra le mani, di carta gialla.

– Si era solo allenato un piolino. La riparazione è gratuita. Tenetela al riparo dall’umidità, sennò quest’estate suona floscia.

Al centro della stanza, una grande insegna campeggiava fiera.

“Laboratorio di Restauro di Tammorre LU MARE DELLU SALENTU. Pronto soccorso e accordature di emergenza 24/h. Corsi tutto l’anno”.

Licciardi esausto, con la testa tra le mani, singhiozzava seduto sul bordo di un gradino. Lui passò senza nemmeno guardarlo.

– Mi spiace. La prossima volta provi con un’agenzia – disse SuperFinder mentre scendeva, cancellando quell’indirizzo dal suo telefonino.

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